Jafar Panahi torna al festival di cannes con il film girato clandestinamente in iran
Jafar Panahi torna al festival di Cannes dopo vent’anni con “It Was Just an Accident”, un film che esplora il trauma e la giustizia in Iran, segnando una resistenza culturale significativa.

Jafar Panahi torna al Festival di Cannes dopo vent’anni con il film "It Was Just an Accident", realizzato clandestinamente in Iran e accolto con grande entusiasmo, segnando un forte gesto di resistenza culturale contro la repressione nel cinema iraniano. - Unita.tv
Jafar Panahi, noto regista iraniano, è tornato al festival di cannes dopo più di vent’anni. Il suo ultimo film, “It Was Just an Accident”, è stato realizzato in iran nonostante i divieti imposti dal governo. La pellicola affronta temi delicati come il trauma e la giustizia, mettendo al centro una vicenda di rapimento dove la vittima crede di riconoscere nel suo aguzzino un ex torturatore. Questo ritorno segna un momento di rilievo per il cinema iraniano e per la libertà d’espressione nel paese.
Il lungo silenzio e la nuova presenza a cannes
Jafar Panahi non partecipava ufficialmente al festival di cannes dal 2003. Il regista ha vissuto anni di restrizioni, dopo la condanna del 2010 a sei anni di carcere più venti anni di divieto a girare film o lasciare l’iran. Le accuse rivoltegli erano legate alla “propaganda contro il sistema”. Nonostante questo, Panahi ha realizzato film in segreto, usando strategie fuori dai canali ufficiali. Pellicole come “Taxi Teheran” e “Gli orsi non esistono” sono nate in quel periodo di clandestinità e raccontano storie molto intime del suo paese. Tornare a cannes con un lavoro non autorizzato è un segnale forte: testimonia una forma di resistenza culturale a un sistema che cerca di soffocare le voci indipendenti. La sua presenza sul palco del festival è stata uno dei momenti più attesi e, non a caso, ha attirato grande attenzione internazionale.
It was just an accident: trama, personaggi e temi
“It Was Just an Accident” si presenta come una commedia nera che si muove tra il dramma e la riflessione politica. La vicenda prende avvio da un incidente stradale che coinvolge un gruppo variegato di persone: un meccanico, una fotografa, una coppia di fidanzati e un medico. Ognuno di loro porta con sé ferite e ricordi legati a tempi difficili, in una dinamica che inchioda la storia personale alle ingiustizie più ampie. Il protagonista decide di rapire chi pensa sia stato il suo torturatore, ma la questione si complica quando si scoprono dettagli che mettono in dubbio le sue certezze. Il film affronta la vendetta, la giustizia e la repressione, temi che risuonano nel contesto dell’iran di oggi. Al suo debutto a cannes ha ricevuto una standing ovation lunga otto minuti, un chiaro segnale di apprezzamento sia dalla critica che dal pubblico presente.
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Nel corso della presentazione, Panahi ha manifestato commozione per tornare a cannes, ma senza dimenticare la condizione dei suoi colleghi in iran. Ha parlato della difficoltà che gli artisti incontrano, specie dopo il movimento “femme liberté”, che ha portato a sanzioni e divieti di lavoro per molti registi e attrici coinvolti nelle proteste. Panahi ha detto chiaramente che “la sua gioia è accompagnata dal peso della realtà che vivono i suoi pari nel paese.” Ha anche annunciato che, subito dopo il festival, tornerà in iran per continuare a lavorare al suo prossimo film, sfidando apertamente i vincoli e i controlli delle autorità. Questa scelta rappresenta un impegno concreto a mantenere viva la produzione culturale, nonostante le pressioni e i rischi legati all’attività artistica in un contesto così limitante.