il dramma occulto di emma schmidt raccontato in un horror dai toni distaccati e storici
Il film “Emma Schmidt – The Ritual” esplora un esorcismo degli anni Venti negli Stati Uniti, privilegiando riflessioni teologiche su fede e male, ma risulta poco coinvolgente e monotono.

"The Ritual" è un film drammatico e riflessivo sull’esorcismo di Emma Schmidt negli anni Venti, che privilegia un approccio documentaristico e teologico a discapito della tensione emotiva e degli elementi horror tradizionali. - Unita.tv
Il nuovo film sul caso di Emma Schmidt prova a scostarsi dal classico horror di possessione demoniaca, proponendo un approccio quasi documentaristico. La pellicola, ambientata negli Stati Uniti negli anni Venti, cerca di riportare alla luce uno degli episodi più enigmatici legati a un’esorcismo realmente avvenuto. Nonostante le aspirazioni, il racconto fatica a coinvolgere pienamente lo spettatore, mantenendo un ritmo costantemente lento e concentrandosi maggiormente sul dibattito teologico che sulle scene di tensione.
Il contesto storico e la trama centrale del film
L’esorcismo di Emma Schmidt – The Ritual si svolge in un convento sperduto dell’Iowa, sul finire degli anni Venti, giusto prima della Grande Depressione. Emma Schmidt, una giovane ragazza traumatizzata dalla morte della madre, mostra segni di un malessere che sfugge a qualsiasi intervento medico tradizionale. La famiglia e la comunità locale, incapaci di trovare spiegazioni razionali, si affidano allora alla Chiesa per cercare un aiuto spirituale.
Viene chiamato il padre Theophilus Riesinger, interpretato da Al Pacino, un prete esperto in rituali di esorcismo. Accanto a lui c’è Joseph Steiger, giovane parroco interpretato da Dan Stevens, che vive una crisi religiosa profonda e dubbiosa. I due sacerdoti rappresentano due modi diversi di percepire la fede: Riesinger guarda con fermezza alla tradizione e al rituale, mentre Steiger affronta la vicenda con scetticismo e incertezze personali. Questa dualità segue tutto il film, trasformando la possessione in un pretesto per una riflessione sul rapporto tra fede e ragione.
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L’atmosfera è dominata da una tensione più intellettuale che emotiva, lontana dalle scene tipiche degli horror sovrannaturali. Non ci sono grandi effetti speciali o momenti di vero spavento. Il racconto punta ad essere fedele ai pochi eventi storici documentati sulla vicenda di Emma Schmidt, evitando eccessi fantasiosi.
Lo stile narrativo scelto dal regista
David Midell, regista e coautore della sceneggiatura insieme a Enrico Natale, sceglie una regia asciutta e quasi fredda. Le inquadrature privilegiano gli spazi chiusi del convento, dando alla narrazione un taglio quasi da docufilm. Questa scelta mira a rafforzare il realismo ma, al tempo stesso, fa sì che la tensione emotiva fatichi a emergere in modo efficace.
Il ritmo del film è molto lento e uniforme. Le scene preferiscono il dialogo e la riflessione ai colpi di scena o ai momenti di slancio narrativo tipici del genere horror. Così, il racconto appare più una meditazione sulla natura del male e sul confronto tra dubbio e fede, piuttosto che un thriller o uno spaventoso racconto sovrannaturale.
L’utilizzo attento della scenografia e del contesto d’epoca non compensa però la mancanza di varietà nella messa in scena. I personaggi, pur interpretati da attori come Al Pacino, sembrano in parte incatenati a una sceneggiatura che non concede spazio a una vera caratterizzazione emotiva. Dan Stevens, nel ruolo del giovane prete, si muove spesso in modo rigido, rischiando di accentuare la freddezza generale del film.
Dal racconto storico al tentativo di riflessione sul male e la fede
Il film si incentra molto sulla dialettica tra il sacerdote tradizionalista e il giovane contagiato dal dubbio. È questa la chiave più interessante del racconto. Il demone che possiede Emma diventa quasi una forza simbolica, un mistero da decifrare dentro il cuore umano e nei laboratori della teologia.
Non è tanto il terrore a guidare la narrazione, ma il tentativo di dare spazio a una domanda antica: cosa si nasconde dietro il concetto di male assoluto? Il demone tiene banco attraverso gemiti, croci rovesciate e blasfemie, ma queste immagini sono filtrate dal distacco della messa in scena, che ne attenua l’effetto terrificante. Al contrario la sceneggiatura insiste su dialoghi, spiegazioni e riflessioni, ostacolando la naturale tensione che un esorcismo vorrebbe suscitare.
Questa scelta ha però un rovescio della medaglia. Lo spettatore può facilmente perdere interesse. L’atmosfera costantemente contenuta, senza slanci o effetti d’impatto, si trasforma in monotonia dopo i primi momenti. La drammaticità del tema viene così svilita, spegnendo la fascinazione per una vicenda storica già di per sé carica di mistero.
L’interpretazione di al pacino tra precisione e immobilità
Al Pacino si cala nel ruolo di padre Theophilus senza scene eclatanti ma con una presenza misurata, tipica di un esorcista che agisce con metodo e convinzione. La sua interpretazione è uno degli elementi salienti del film, trasmettendo la gravità del compito e la fede incrollabile del personaggio.
Il confronto con il giovane prete, tormentato e in crisi, restituisce un contrasto che funziona sul piano narrativo. Dan Stevens dona al ruolo una rigidità che sottolinea la difficoltà della sua posizione, anche se spesso la rigidità diventa un limite alla spontanea espressività.
Nonostante il cast, però, il film non regala momenti memorabili né sul versante dell’azione, né su quello emotivo. La presenza di Pacino si fa sentire, ma non basta a risollevare una sceneggiatura che sembra appesantita da un approccio troppo filosofico e poco dinamico.
L’effetto complessivo del film tra anti-horror e dramma storico
The Ritual si pone come una pellicola fuori dagli schemi classici del cinema horror di possessione. Il suo intento è più quello di raccontare uno spaccato di storia, toccare temi profondi legati alla fede e al male, evitando l’uso di trovate spettacolari o di soluzioni narrative facili.
Ma questo percorso lo condanna a un’esecuzione che può risultare poco coinvolgente per chi cerca l’emozione forte o la tensione narrativa. La narrazione procede senza sussulti, e il ritmo basso talvolta diventa una barriera alla concentrazione dello spettatore.
La scelta di concentrarsi quasi esclusivamente sulla vicenda storica documentata si traduce in un film che sembra sospeso fra il dramma d’epoca e un cinema dal taglio concettuale. Restano chiari i limiti di un budget contenuto, visibile nell’impostazione scenografica e nel numero ridotto di location.
L’orso del pubblico potrebbe quindi essere un’opera di nicchia, che provoca più riflessioni che emozioni. L’ambientazione rigorosa, gli interpreti famosi e il tema di fondo non bastano a evitare che la storia proceda lentamente e si perda in una serie di interrogativi teorici, senza regalare momenti davvero indimenticabili.