L’UNESCO avverte: nel bacino mediterraneo il rischio di uno tsunami è concreto e sottovalutato.
Per decenni il Mediterraneo è stato percepito come un mare tranquillo, protetto dai grandi disastri che colpiscono l’oceano Pacifico o l’Atlantico. Un luogo dove vivere e trascorrere le vacanze con la certezza che nulla di violento possa accadere. Oggi questa sicurezza vacilla. Secondo gli studi più aggiornati, entro i prossimi 30 anni le probabilità che uno tsunami colpisca le coste del Mediterraneo sono elevate. Un’allerta che arriva dalla Commissione oceanografica intergovernativa dell’UNESCO, che da anni analizza il rischio sismico dei fondali marini globali.
Non si parla di onde alte decine di metri come quelle viste in Giappone nel 2011 o in Indonesia nel 2004. Ma anche un’onda di un solo metro, se diretta contro coste turistiche, può generare danni ingenti, distruggendo stabilimenti balneari, porti turistici, campeggi e infrastrutture a pochi metri dal livello del mare. Eppure, il Mediterraneo continua a non essere percepito come una zona a rischio reale.
Il pericolo della faglia di Averroè nel Mar di Alboran
L’epicentro più temuto si trova nel tratto occidentale del Mediterraneo, tra la costa meridionale della Spagna e il nord dell’Algeria. In questa zona, nota come faglia di Averroè, due placche tettoniche scorrono lateralmente una rispetto all’altra, generando tensioni che potrebbero rilasciarsi in un forte terremoto sottomarino. Se ciò avvenisse, le onde potrebbero raggiungere le coste andaluse in soli 20-25 minuti.

I dati, confermati da modelli geologici, mostrano che un sisma di media intensità potrebbe avere effetti rapidi e localizzati. La velocità dell’impatto è il vero problema: meno di mezz’ora non basta per evacuare intere aree costiere, soprattutto nei mesi estivi, quando migliaia di persone popolano villaggi turistici e campeggi.
Anche uno scenario con epicentro più a sud, lungo la costa algerina, non offre molte più garanzie. Il tempo di arrivo di uno tsunami in quel caso potrebbe aggirarsi sui 60-70 minuti, ma resta comunque insufficiente per attivare una risposta efficace in contesti affollati o privi di percorsi di fuga ben segnalati.
Le autorità locali e le strutture turistiche di questi territori spesso non possiedono piani di emergenza, né sistemi di allerta capillari capaci di raggiungere la popolazione in tempi utili. Il rischio, quindi, è duplice: da un lato la velocità dell’onda, dall’altro la scarsa preparazione delle comunità coinvolte.
Dati storici, allerta precoce e limiti culturali
Negli ultimi cento anni, nel solo Mediterraneo si sono verificati più di 100 eventi riconducibili a tsunami. Non sempre si è trattato di disastri su larga scala, ma il numero è sufficiente a smentire il mito del mare sicuro. Oggi si stima che il bacino mediterraneo rappresenti circa il 10% del rischio globale, una percentuale tutt’altro che trascurabile.
Le onde raramente superano i due metri, ma ciò non significa che non possano causare danni. Basti pensare a quanto siano vulnerabili molte località turistiche affacciate sul mare, con abitazioni costruite a pochi metri dalla costa, strade senza barriere e porti pieni di imbarcazioni che diventano oggetti di distruzione durante un maremoto.
L’Europa, da alcuni anni, ha iniziato a investire in sistemi di allerta rapida. Sensori sottomarini, boe oceaniche, centrali di monitoraggio geofisico lavorano in rete per intercettare onde anomale e inviare segnali in tempo reale. Tuttavia, secondo molti esperti, questi strumenti da soli non bastano.
La preparazione culturale è la chiave, come sottolinea Hélène Hébert del centro francese CENALT. Nei paesi asiatici a rischio tsunami, come il Giappone, l’allerta e l’educazione fanno parte della vita quotidiana. Invece, nel Sud Europa, le conoscenze base su come comportarsi in caso di allarme sono pressoché assenti.
Lo scenario più realistico, quindi, non è quello da film catastrofico con onde gigantesche, ma una situazione concreta: un’onda di un metro che arriva in 20 minuti in una spiaggia affollata, senza sirene, senza segnaletica, senza piani di evacuazione. È questo che gli scienziati vogliono prevenire. Non il disastro spettacolare, ma l’incapacità di affrontare l’imprevisto.