
Il referendum dell'8-9 giugno 2025, escluso il quesito sull’autonomia differenziata, si concentra su lavoro e cittadinanza, con il governo Meloni che punta all’astensione attiva e l’opposizione divisa sulle strategie di voto. - Unita.tv
Con l’avvicinarsi del referendum previsto per l’8 e 9 giugno 2025, il dibattito politico si concentra sulle dinamiche legate alla partecipazione e alle divisioni interne ai partiti riguardo a cinque quesiti, tra cui quello sulla cittadinanza e quattro legati alle modifiche al lavoro. La decisione della Corte costituzionale di bloccare il referendum sull’autonomia differenziata voluta dalla Lega ha modificato il quadro politico, togliendo maggiore impulso a questa consultazione, ma lasciando intatte diverse tensioni e strategie dei principali attori coinvolti.
Il contesto politico e l’effetto dello stop alla legge calderoli
Nei mesi scorsi, il referendum sull’autonomia differenziata aveva catalizzato l’attenzione politica, soprattutto per il suo potenziale impatto sul governo Meloni. Il ricorso della Consulta ha, però, bloccato la possibilità di votare su quel quesito, rimodulando di fatto la legge Calderoli. Questa decisione ha ridotto la carica politica generale del voto di giugno, togliendo quello che era considerato il motore principale. Non a caso, le dichiarazioni di Elly Schlein, segretaria del Pd, hanno evidenziato come il referendum potesse rappresentare un possibile segno di rottura tra governo e opinione pubblica, ma tale scenario appare ora meno concreto.
Il referendum si focalizzerà quindi sui quesiti legati al lavoro, proposti principalmente da sindacati e opposizioni per modificare alcune parti del Jobs act, e sul tema della cittadinanza, proposto da Più Europa. È evidente che la mossa della corte ha semplificato il quadro, ma ha anche spostato la partita politica su altri binari, meno immediatamente esplosivi per l’esecutivo.
Il quorum e le attese sulla partecipazione: numeri e scenari
Uno degli aspetti centrali di questo referendum riguarda il raggiungimento del quorum, fissato al 50% più uno degli aventi diritto, ossia oltre 25 milioni di votanti. Questo standard è sempre stato considerato difficile da raggiungere, e, nelle settimane che hanno preceduto il voto, si è consolidata la convinzione che il quorum sarà probabilmente mancato.
Gli analisti politici sulle posizioni delle opposizioni e della Cgil – le principali forze promotrici – giudicano un risultato positivo un’affluenza intorno al 40% . Nel Pd e nel sindacato di Maurizio Landini, però, è prevalsa un’approssimazione più prudente, con obiettivi di partecipazione più bassi, verso i 12 milioni, pari agli elettori che alle ultime politiche hanno sostenuto la coalizione di centrodestra.
La differenza tra un’affluenza vicina al 40% e una intorno al 25% può segnare la differenza tra un segnale politico forte e un risultato meno incisivo per le opposizioni. Il numero dei partecipanti sarà quindi più importante del semplice rapporto tra sì e no sugli specifici quesiti.
Le strategie di meloni e la scelta dell’astensione attiva
La premier Giorgia Meloni ha adottato una strategia particolare per questa consultazione. Ha annunciato che si recherà al seggio elettorale, ma non ritirerà le schede per votare. Un gesto simbolico che sottolinea una forma di astensione “attiva”, senza incentivare però l’astensione totale o aperta. Questo approccio intende evitare un effetto simile a quello del referendum del 1991, quando Bettino Craxi suggerì di andare al mare e il quorum non fu raggiunto, portando a un esito favorevole a quella riforma elettorale.
Anche gli altri partiti del centrodestra, come Lega e Forza Italia, hanno indicato l’astensione, fatta eccezione per Noi Moderati, che sostiene un no convinto a tutti i quesiti. La scelta del voto nullo o dell’astensione è intesa a ridurre l’affluenza, abbassando la probabilità di raggiungere il quorum e così impedire che il referendum acquisti validità e peso politico per le opposizioni.
Divisioni interne al campo largo e posizioni contrastanti su cittadinanza e lavoro
Il cosiddetto campo largo, formato dalle forze d’opposizione, appare frammentato su come affrontare i quesiti referendari. Il M5s, guidato da Giuseppe Conte, ha lasciato libertà di voto alla propria base, con una sostanziale apertura verso i sì sul lavoro e il quesito sulla cittadinanza promosso da Riccardo Magi di Più Europa. Quest’ultimo punta a ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario per richiedere la cittadinanza italiana.
Nel contrasto si inserisce Azione, guidata da Carlo Calenda, che invece spinge per il sì solo sul quesito della cittadinanza e invita a respingere quelli legati alle modifiche sul lavoro.
Anche all’interno del Pd la situazione è frammentata. Elly Schlein sostiene cinque sì in linea con la Cgil e Alleanza Verdi Sinistra. Tuttavia, una parte dei riformisti, principali esponenti della minoranza, preferisce sostenere solo due quesiti, quelli su cittadinanza e sicurezza sul lavoro, e votare no su quello che riguarda la revisione del Jobs act.
Riformisti e renzi: il no al rovesciamento del jobs act
I riformisti del Pd che negli anni passati avevano appoggiato il Jobs act, sotto la guida di Matteo Renzi, ribadiscono la loro posizione senza rinnegare quel periodo. Personalità come l’ex premier Paolo Gentiloni e gli ex ministri Lorenzo Guerini, Graziano Delrio e Marianna Madia si oppongono alla cancellazione o modifica della riforma del lavoro, indicandola come un passaggio necessario nella storia recente.
Anche gli ultrariformisti di LibertàEguale, come Enrico Morando, Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini, suggeriscono un voto selettivo: sì alla cittadinanza e astensione sugli altri quesiti. Matteo Renzi ha invece proposto un’interpretazione complessa, dicendo sì alla cittadinanza, no sul piano dei licenziamenti e delle tutele crescenti, lasciando libera scelta su altri quesiti relativi a incidenti sul lavoro e contratti a tempo determinato.
Questo atteggiamento riflette le divisioni interne al centrosinistra, dove il confronto resta aperto e non è emersa una linea comune univoca per il referendum.