Negli ultimi anni i social network hanno aperto uno spazio nuovo per le persone con disabilità, permettendo loro di raccontarsi direttamente, senza passare da filtri esterni come genitori, operatori o media. Questo ha portato a una pluralità di voci autentiche capaci di far emergere esperienze quotidiane difficili da mostrare in altri contesti. Condividere successi e frustrazioni ha aiutato molti a capire cosa significhi davvero convivere con una disabilità. Ma questo scenario porta con sé anche interrogativi sul reale scopo delle comunicazioni: quanto è attivismo e quanto personal branding?
La trasformazione del racconto sulla disabilità grazie ai social
Il cambiamento più evidente riguarda la possibilità per chi vive con una disabilità di esprimersi liberamente sui propri canali digitali. Prima d’ora, spesso le narrazioni venivano mediate da altre persone o istituzioni che filtravano i messaggi secondo schemi predefiniti. Oggi invece c’è un contatto diretto tra chi racconta e chi ascolta, senza intermediari.
Storie personali non edulcorate
Questo ha permesso l’emergere di storie personali non edulcorate: si mostrano momenti difficili ma anche piccole vittorie quotidiane che altrimenti sarebbero rimaste invisibili. Il pubblico può così entrare in contatto diretto con realtà poco conosciute o fraintese dalla società generale.
Tuttavia questa libertà espone anche alla tentazione del protagonismo fine a se stesso o alla spettacolarizzazione delle difficoltà vissute. La linea tra sensibilizzazione vera e creazione di un personaggio online è molto sottile.
Attivismo digitale o personal branding? il confine incerto
Molte persone usano i social per denunciare discriminazioni e rivendicare diritti fondamentali legati alla disabilità; altri invece sembrano sfruttare la propria immagine per ottenere visibilità personale più che risultati concreti.
La trasformazione da attivista a influencer può avvenire rapidamente quando il pubblico premia contenuti emozionanti o coinvolgenti più dei messaggi politici complessi ma meno immediati. Questo rischia di ridurre temi seri a semplici storie emozionali consumabili online.
In alcuni casi emerge una spettacolarizzazione della sofferenza: si costruiscono narrazioni calibrate su ciò che genera like piuttosto che su ciò che serve realmente alle comunità coinvolte. È un rischio legato al meccanismo stesso dei social network dove l’algoritmo favorisce contenuti virali anziché approfonditi.
Per valorizzare l’impegno serio in questo campo è nato il premio giornalistico Paolo Osiride Ferrero, che dal 2025 assegna un riconoscimento all’attivista dell’anno capace tramite comunicazione digitale di promuovere cambiamenti culturali solidi intorno alla disabilità.
Quando politica e aziende cercano volti noti senza sostanza
Un fenomeno collegato riguarda l’interesse crescente da parte dei politici e delle aziende verso influencer con disabilità per parlare pubblicamente del tema inclusione nei loro eventi o campagne promozionali.
Spesso queste operazioni sono mosse più dalla ricerca d’immagine positiva piuttosto che dal desiderio sincero di confronto sulle problematiche reali delle persone coinvolte.
Questa tendenza rischia inoltre di concentrare attenzione su singoli individui carismatici ma non rappresentativi dell’intera comunità né necessariamente preparati ad affrontare questioni complesse legate ai diritti civili collettivi della categoria.
Negli anni ’90 lo slogan “niente su di noi senza di noi” indicava chiaramente come solo organizzazioni democratiche potessero rappresentare veramente interessi comuni; oggi occorrerebbe precisarlo meglio aggiungendo “se professionisti”, perché servono competenze specifiche oltre alla sola visibilità personale nel dibattito pubblico sulla disabilità.
Nuovi meccanismi digitali modificano la comunicazione sulla disabilità
Paradossalmente proprio gli strumenti nati per dare voce diretta alle persone possono introdurre nuove forme d’intermediazione dovute agli algoritmi social: questi premiano contenuti positivi, motivazionali ed emotivamente accattivanti mentre penalizzano quelli critici meno condivisibili dal grande pubblico.
Così molte narrazioni diventano ripetitive nello schema “persona resiliente” lasciando poco spazio alle discussioni sulle barriere strutturali ancora esistenti nella società italiana ed europea nel 2025 oppure sulle lotte collettive necessarie ad eliminarle davvero negli ambiti lavorativi, scolastici oppure urbani accessibili solo parzialmente ancora oggi.
Le piattaforme finiscono col creare nuove versioni semplificate della realtà dove prevale l’inspirational storytelling rispetto all’approfondimento politico vero; ne risente così la qualità del dibattito pubblico sul tema.
Associazioni: pilastri insostituibili nella difesa dei diritti
In mezzo a questa confusione torna centrale il ruolo storico svolto dalle associazioni dedicate ai diritti delle persone con disabilità. Queste organizzazioni lavorano ogni giorno lontane dai riflettori, concentrandosi sui bisogni concreti degli associati, facendo pressione istituzionale, garantendo servizi sul territorio.
Non inseguono follower né cercano applauso facile online, bensì si dedicano al lavoro lungo termine necessario perché norme, infrastrutture ed opportunità diventino accessibili realmente. Offrono quindi rappresentanza collettiva ben diversa dall’immagine individuale diffusa sui social.
Ripartire dall’impegno strutturato delle associazioni significa riconoscere alla questione della inclusione sociale dimensione politica concreta. Solo così è possibile tradurre sensibilità momentanee in azioni efficaci dentro scuole, aziende, amministrazioni pubbliche.
La presenza crescente degli influencer può affiancarserne utilmente ma non sostituirla mai: serve equilibrio fra voci individuale fortemente mediatizzate e organismi di riferimento radicati nei territori capaci di incidere davvero nelle decisioni istituzionali.