La tragedia che ha scosso Milano tra venerdì e domenica scorsi coinvolge un detenuto condannato per omicidio, che durante un permesso di lavoro ha aggredito un collega e ucciso una donna. La vicenda ha fatto emergere tensioni politiche e interrogativi sul sistema dei permessi lavorativi concessi ai detenuti in Italia, mettendo al centro del dibattito il ruolo della magistratura e le misure alternative al carcere.
La sequenza degli eventi tragici a milano
Emanuele De Maria, detenuto che scontava una condanna a 14 anni per l’omicidio di una donna, si trovava in permesso di lavoro quando ha accoltellato un collega. Ma la violenza non si è fermata lì: ha poi ucciso una donna con cui intratteneva una relazione al di fuori dell’orario lavorativo. Dopo aver compiuto questi fatti, domenica alle 13.30 si è lanciato dalle terrazze del Duomo, davanti a una folla sorpresa e spaventata.
I fatti si sono svolti in pochi giorni e hanno messo in luce una serie di criticità legate al controllo e al rilascio dei permessi per i detenuti. In particolare, è emerso come De Maria potesse muoversi all’esterno nonostante la gravità del reato per il quale era stato condannato. Questa dinamica ha sollevato un’ondata di sgomento tra i cittadini e un acceso dibattito pubblico sulla gestione dei detenuti e la sicurezza nelle misure alternative.
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Le autorità milanesi hanno dovuto affrontare immediatamente la ricaduta sociale di questi eventi, con la città che ha vissuto ore dense di emozione e incertezza. L’episodio ha infatti portato all’attenzione dei media nazionali la questione dei permessi lavorativi e delle responsabilità che comporta la loro concessione.
Polemiche politiche e responsabilità della magistratura
La vicenda ha generato un forte dibattito a livello nazionale. Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno avanzato interrogazioni parlamentari e richieste ufficiali di ispezione al ministro della Giustizia. Maurizio Gasparri, esponente di Forza Italia, ha accusato le autorità giudiziarie di gravi errori nel valutare il permesso, chiedendo che vengano individuate le responsabilità e applicate sanzioni.
Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, ha chiarito che “non spettava all’amministrazione penitenziaria concedere il permesso di lavoro all’esterno.” A suo dire, la scelta è stata esclusiva della magistratura, attraverso il giudice che ha autorizzato l’uscita. Questo ha rinviato ogni responsabilità diretta al sistema giudiziario e ha escluso coinvolgimenti da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Confronto politico e sociale
Su questo punto si è innestato il confronto politico e sociale, con diverse forze che chiedono una revisione delle prassi e delle norme che regolano i permessi. La questione solleva dubbi netti sul modo in cui si valutano i rischi associati a ciascun detenuto e sulla trasparenza delle scelte giudiziarie in queste situazioni.
La reazione del comune di milano e il senso di sgomento
Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, non ha tardato a intervenire sulla vicenda, esprimendo lo sgomento dei cittadini. Ha spiegato come “sia difficile da comprendere che dopo una condanna per omicidio di 14 anni un detenuto possa uscire temporaneamente prima di aver scontato l’intera pena.” Sala ha sottolineato come questo sia previsto dalle leggi vigenti e ha evidenziato il distacco tra norme e percezione pubblica.
Il sindaco ha affrontato il dilemma tra il rispetto delle leggi e la sicurezza percepita dalla popolazione. La sua dichiarazione ha alimentato un dibattito più ampio sulle riforme necessarie, ma anche sulle difficoltà a conciliare il diritto al lavoro esterno dei detenuti con la protezione della città e dei cittadini.
Riprendendo il sentimento della gente, Sala ha indicato una frattura tra le regole del sistema penale e le aspettative dei milanesi, che chiedono maggiore chiarezza e tutela. La città ha vissuto giornate di tensione, con molte persone a chiedersi come eventi simili possano accadere e quali garanzie siano realmente offerte dalla magistratura nel valutare i rischi di ogni singolo caso.
L’opinione dell’associazione antigone e i dati sulle misure alternative
L’associazione antigone, attiva da più di trent’anni nel campo dei diritti nelle carceri italiane, ha rivendicato la correttezza delle misure alternative al carcere. Il presidente Patrizio Gonnella ha riportato dati che mostrano un basso tasso di revoca di queste misure per nuovi reati, meno dell’1%. Questo significa che “rimanere in carcere non riduce necessariamente la tendenza a commettere nuovi delitti.”
Antigone ha evidenziato come chi completa la pena dietro le sbarre presenti un tasso di recidiva del 70%. Questa differenza, ha detto Gonnella, rende rischioso mettere in discussione le misure alternative solo per un singolo episodio negativo, specialmente perché in Italia quasi centomila persone stanno scontando pene o misure alternative alla detenzione in carcere.
Numeri e pressione sulle carceri
Secondo l’associazione, senza queste misure la pressione sulle carceri italiane sarebbe insostenibile. Al 15 marzo 2025, sul territorio nazionale erano 97.009 i soggetti impegnati in forme alternative alla detenzione. Ne deriva che un intervento di revisione critica deve considerare questi numeri, evitando di gettare discredito su tutto il sistema a seguito di fatti isolati.
Antigone invita a mantenere il bilancio tra sicurezza e reinserimento sociale, evitando di penalizzare persone che, grazie a queste misure, hanno l’opportunità di lavorare e vivere fuori dal carcere senza provocare danni. Il caso di De Maria rappresenta però un campanello d’allarme, ma “non dovrebbe condurre a una sospensione generale dei permessi in assenza di un’analisi più ampia.”
L’episodio resta sotto osservazione mentre a Milano e in tutta Italia si discute sulle modalità con cui gestire detenuti con reati gravi, cercando un equilibrio tra tutela della comunità e rispetto delle regole penali.