Il commercio della carne di squalo in Italia prosegue legalmente, ma con gravi rischi per l’equilibrio marino: servono etichette più chiare e una maggiore informazione per proteggere gli squali e il mare.
Nei banchi del pesce dei supermercati italiani appaiono con regolarità tranci di squalo, spesso venduti sotto nomi come verdesca, spinarolo, palombo o smeriglio. Non tutti lo sanno, ma l’Italia è tra i maggiori importatori al mondo di carne derivata da squali: tra il 2009 e il 2021 ha acquistato quasi 98 mila tonnellate di questi prodotti, per un valore stimato in oltre 370 milioni di dollari. A livello globale, solo due Paesi superano l’Italia per quantità e valore di questo mercato. Nessuno nell’Unione europea importa di più.
Una presenza invisibile nei banchi del pesce
Il problema principale non è la legalità del commercio: vendere carne di squalo non è vietato, e in alcune regioni italiane fa parte della tradizione gastronomica locale. Il nodo, semmai, sta nella scarsa consapevolezza dei consumatori. I nomi utilizzati nelle etichette sono poco chiari o fuorvianti, e difficilmente indicano la reale provenienza o lo stato di conservazione della specie. Così, anche chi cerca di fare acquisti responsabili rischia di contribuire a una filiera opaca e pericolosa per l’ambiente marino.

Le specie presenti sugli scaffali appartengono a una manciata di tipologie su oltre 500 conosciute. Alcune, come il blue shark o il shortfin mako, sono predatori apicali, cioè in cima alla catena alimentare. La loro scomparsa può alterare drasticamente l’equilibrio dell’ecosistema, riducendo le popolazioni di altre specie e influenzando la capacità degli oceani di assorbire anidride carbonica.
Ogni anno, la pesca intensiva uccide circa 100 milioni tra squali e razze, spingendo oltre un terzo delle specie verso la minaccia o l’estinzione. Un dato allarmante che spesso resta fuori dai radar della comunicazione commerciale. Le immagini positive o neutralizzate del prodotto non bastano a restituire la portata reale del problema.
Etichette poco trasparenti e regole troppo deboli
Per arginare l’impatto sul mare, diversi esperti chiedono un cambio di rotta. Serve una maggiore trasparenza nelle etichette, che specifichi la specie esatta e lo stato di conservazione in cui si trova. Solo così il consumatore può decidere in modo informato, senza contribuire, magari inconsapevolmente, alla distruzione di un equilibrio naturale già compromesso.
Il documentario Shark Preyed, realizzato dai fratelli Marco e Andrea Spinelli, prova a raccontare proprio questo. Attraverso un’indagine sul campo e testimonianze dirette, il film cerca di rivalutare l’immagine dello squalo, spesso dipinto come un mostro, ma in realtà fondamentale per la salute dell’oceano. Il lavoro dei due autori punta i riflettori su una filiera invisibile che arriva fino al piatto senza quasi lasciare tracce, rendendo difficile anche solo accorgersi del problema.
Secondo i dati scientifici, non è più possibile considerare la pesca di squalo come un’attività neutra. Le conseguenze sull’ambiente marino e, a catena, sull’intera economia ittica sono concrete. Senza un quadro normativo più severo e un controllo efficace delle importazioni, anche la legalità rischia di trasformarsi in un alibi. E la responsabilità ricade non solo su chi vende, ma anche su chi acquista.