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Smart working dall’estero, il limite della geolocalizzazione e la tutela della privacy dei lavoratori

Lavorare da remoto richiede accordi chiari tra dipendente e datore di lavoro, mentre la geolocalizzazione senza consenso viola la privacy, portando a sanzioni per le aziende.

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L'articolo tratta la necessità di accordi chiari tra dipendente e datore di lavoro per il lavoro da remoto dall’estero, evidenziando i limiti legali della geolocalizzazione e l’importanza della tutela della privacy nel rispetto delle normative vigenti. - Unita.tv

Lavorare da remoto, specie dall’estero, richiede accordi chiari tra dipendente e datore di lavoro, indipendentemente dal settore. La questione si complica quando le aziende ricorrono alla geolocalizzazione per accertare il luogo di lavoro, metodo che spesso viola la privacy dei lavoratori e la normativa vigente. Recenti sanzioni evidenziano quanto sia delicato il confine tra controllo e rispetto dei diritti personali.

Accordi tra dipendente e azienda per lo smart working dall’estero

Chi sceglie di lavorare in smart working oltre confine deve definire con precisione condizioni e termini dell’attività con l’azienda di riferimento. Questo vale sia per il pubblico che per il privato. La ragione è semplice: ogni spostamento del luogo di lavoro impatta contratti, tasse, sicurezza e diritti dei lavoratori.

Non a caso, diventa fondamentale che le parti si accordino in modo chiaro sull’intenzione di svolgere l’attività da un paese straniero. L’azienda deve essere consapevole del luogo da cui il dipendente opererà per evitare problemi legali o fiscali. Senza intese formali, soprattutto in caso di accertamenti, il rischio ricade sia sul lavoratore che sull’impresa.

La geolocalizzazione come strumento controverso

In questo contesto, la pratica della geolocalizzazione diventa controproducente se effettuata senza consenso o basi legali. L’azienda, infatti, non può semplicemente tracciare il telefono o il computer del dipendente per controllarne la posizione. Le recenti multe a società che hanno agito così testimoniano la rigidità delle norme a tutela della privacy.

I limiti legali della geolocalizzazione sul lavoro

La geolocalizzazione senza cause legittime o senza consenso informatizzato e specifico viola la legge sulla privacy. Il Garante per la protezione dei dati ha chiarito che individuare la posizione del lavoratore per verificare dove svolge l’attività rientra in un controllo inappropriato e ingiustificato.

È stato il caso di un ente pubblico multato perché chiedeva ai dipendenti di attivare un’app con il GPS durante l’orario lavorativo per controllarne l’esattezza del luogo riportato nel contratto. Questa pratica è contraria al principio di riservatezza e alla tutela dei dati personali che ogni cittadino, e dunque anche ogni lavoratore, può rivendicare.

Rigore delle sanzioni a tutela della privacy

I provvedimenti sanzionatori servono a evitare che le imprese entrino in modo arbitrario negli spazi privati. La legge permette controlli solo se strettamente necessari, proporzionati e comunicati in maniera trasparente. Una geolocalizzazione continua, non giustificata e non autorizzata, viola la normativa e porta a conseguenze economiche per il datore di lavoro.

I diritti dei lavoratori e le informative sull’uso dei dati personali

Il rispetto dei diritti dei lavoratori passa anche dalla corretta informazione sulle misure di controllo. Se un’azienda intende utilizzare sistemi di monitoraggio, deve spiegare chiaramente come e perché. Le procedure devono essere trasparenti, documentate e sottoposte a consenso espresso.

La legge infatti ammette il controllo per motivi precisi, come la sicurezza sul lavoro o la tutela degli strumenti aziendali. Ma la verifica continua della posizione geografica, finalizzata a controllare se l’impiegato lavora effettivamente da dove dichiara, non rientra in queste casistiche.

Impatto della mancanza di fondamento giuridico

Questi controlli, privi di fondamento giuridico, provocano un’ingerenza indebita sulla vita privata. Oltre a violare norme specifiche, ledono la fiducia tra dipendenti e datore. L’informativa deve quindi riportare i diritti di entrambe le parti, chiarendo che la geolocalizzazione senza motivazioni legittime è vietata.

Il caso dell’azienda multata è un monito per tutte le imprese che operano in smart working su territori nazionali o esteri. Il contratto deve regolare in modo preciso l’attività e il controllo, senza strumentalizzare strumenti tecnologici che possono limitare le libertà personali.

Il dibattito sul ritorno in ufficio e il peso della privacy nel 2025

Con il rallentamento del lavoro da remoto dopo la pandemia, molte aziende chiedono il ritorno in sede. Secondo sondaggi recenti, il 74% dei lavoratori si oppone a questa scelta, prendendo in considerazione soprattutto flessibilità e qualità della vita.

Nonostante la spinta a tornare in ufficio, la questione della privacy rimane centrale. Aziende che tentano di controllare il luogo di lavoro mediante geolocalizzazione rischiano multe e conflitti legali. La legge non lascia spazio a interpretazioni permissive su questi aspetti.

Tecnologia e rispetto della normativa

L’attenzione è alta non solo per i dipendenti, ma anche per le imprese che devono rispettare normative stringenti. La tecnologia non può diventare uno strumento di sorveglianza indiscriminata, ma deve limitarsi a quanto previsto dalla normativa vigente.

Lo smart working, specie se fuori dai confini nazionali, richiede equilibrio tra esigenze organizzative e tutela del lavoratore. Controlli e verifiche devono muoversi su binari chiari, evitando abusi e proteggendo dati sensibili. Questo riguarda anche aziende pubbliche che, come il caso recente ha dimostrato, non sono immuni da sanzioni.

L’orizzonte normativo del lavoro in remoto resta al centro delle attenzioni di autorità e lavoratori, costringendo a un confronto diretto tra tecnologia, diritto e rispetto delle persone.