Riservisti israeliani divisi tra rifiuto della chiamata e fuga all’estero durante il conflitto a gaza
Il conflitto tra Israele e Gaza provoca fratture nella società israeliana, con riservisti che rifiutano la chiamata alle armi e famiglie in crisi, mentre l’economia subisce gravi ripercussioni.

Il conflitto tra Israele e Gaza sta causando profonde divisioni sociali, disagi economici e tensioni politiche in Israele, con riservisti che rifiutano di combattere, fuga all’estero, e impatti visibili su famiglie e imprese. - Unita.tv
Il conflitto in corso tra israele e la Striscia di Gaza sta mostrando una frattura significativa all’interno della società israeliana, soprattutto tra i riservisti richiamati alle armi. Molti militari si rifiutano di rispondere alla chiamata o scelgono di lasciare il paese grazie al doppio passaporto. Questo disagio coinvolge non solo le forze armate ma anche famiglie e settori economici, con ripercussioni profonde e già visibili.
Piccoli numeri ma grande impatto
Dopo l’escalation del conflitto il 7 ottobre 2023, il ministero della Difesa di israele ha chiesto un aumento del numero di riservisti mobilitati per operazioni a Gaza. In molti casi la risposta è stata una crescente opposizione a questa chiamata. Alcuni hanno ignorato semplicemente l’appello, creando un problema che non poteva essere risolto con la sola coercizione. Dietro questo rifiuto si nasconde un peso sociale difficile da ignorare: famiglie spezzate, imprese in difficoltà, tensioni interne aumentate.
Fuga all’estero attraverso doppi passaporti
Un altro dato rilevante è la diffusione tra i giovani israeliani del doppio passaporto. Molti, dopo aver svolto il primo periodo di servizio militare, hanno deciso di trasferirsi temporaneamente all’estero per evitare di essere richiamati, mantenendo intatti i loro documenti di seconda nazionalità. Paesi molto frequentati sono gli Stati Uniti, l’Australia, il Portogallo e alcuni stati asiatici. Questo fenomeno, già notevole, potrebbe crescere ulteriormente se la guerra dovesse protrarsi.
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Secondo il quotidiano Haaretz, il prezzo pagato dalla società israeliana è alto e visibile anche oltre il campo di battaglia. La disgregazione delle famiglie e la crisi delle imprese coinvolte dalla mobilitazione mostrano che l’impatto va ben oltre la dimensione militare. Ci sono anche casi di suicidi tra i soldati, segno di un malessere profondo e diffuso.
Controllo dell’informazione e spaccature politiche
Il controllo dell’informazione in israele resta rigido e sottoposto a tensioni evidenti. Gli effetti del conflitto arrivano direttamente nelle case delle famiglie, soprattutto quando i parenti degli ostaggi mostrano immagini dei bambini morti a Gaza durante le manifestazioni pubbliche. Questo ha riaperto la discussione sulla tregua e sulla sua rottura, mettendo a rischio la vita dei rapiti e scuotendo l’opinione pubblica.
Nel frattempo, alcune personalità politiche, anche all’interno del Likud, propongono misure drastiche come l’embargo alimentare verso Gaza, ritenendo questo un mezzo giustificabile per raggiungere obiettivi militari. Questo approccio trova ampio spazio nei media ufficiali e alimenta una divisione anche all’interno dell’esercito.
Critiche e misure contro i dissidenti
Yair Golan, ex vice capo delle forze armate israeliane, ha criticato apertamente le azioni che portano alla morte di civili, parlando di un “omicidio di bambini per hobby”. Le sue parole, però, vengono attribuite non all’esercito ma al governo. Nello scontro politico, il ministro della Difesa ha vietato a Yifat Tomer-Yerushalmi, capo dell’Avvocatura militare, di partecipare a incontri pubblici, ordinandole di dedicarsi esclusivamente alla difesa dei soldati e non a questioni politiche.
In parallelo, il capo di stato maggiore – legato a Netanyahu e favorevole all’occupazione di Gaza – ha spinto per una limitata ripresa degli aiuti umanitari verso i palestinesi. Per gestire questa operazione, è stata creata una fondazione umanitaria in Svizzera, con partecipazione di ex militari americani, ma ONG e l’ONU hanno rifiutato di collaborare a questa distribuzione, probabilmente per le modalità troppo limitate adottate.
Effetti economici sulle famiglie e sul paese
Il conflitto pesa anche sull’economia israeliana e sulle famiglie dei militari mobilitati. I riservisti ricevono un’indennità proporzionata al reddito perso, coperta dallo Stato che, per sostenere tutto, si appoggia pesantemente agli aiuti finanziari degli Stati Uniti. Dal 2007 a oggi Washington elargisce a israele oltre 3 miliardi di dollari all’anno, cifra salita a quasi 4 miliardi nella gestione Trump e mantenuta anche da amministrazioni successive.
Nonostante queste somme, vari settori mostrano difficoltà concrete. Nel campo agricolo molti lavoratori tradizionali sono stati sostituiti da operai asiatici, ma anche questi ultimi tendono a lasciare le zone di conflitto per motivi di sicurezza. Nel settore edilizio, dove i lavoratori palestinesi erano fondamentali, si registra una battuta d’arresto significativa. Nel ramo hi-tech, il personale ha invece caratteristiche più difficili da replicare, creando problemi di continuità produttiva.
Boicottaggio commerciale e logistica
Altro problema non meno importante è il boicottaggio commerciale internazionale verso israele, che ha preso forza negli ultimi mesi. Alcuni prodotti, come i datteri coltivati nelle colonie della valle del Giordano, hanno visto l’eliminazione delle etichette che ne indicavano la provenienza per cercare di evitarne il ritiro dal mercato. Quest’ultima strategia però ha fallito, e quei prodotti sono stati comunque esclusi da alcune catene distributive, anche in paesi come l’Italia.
Il governo israele si trova davanti a un doppio nodo: quello della gestione della guerra e quello degli effetti sociali ed economici, entrambi profondi e difficili da risolvere rapidamente. Questi elementi condizioneranno le scelte politiche e militari nel prossimo futuro.