Quando il dipendente può rifiutare la prestazione lavorativa: indicazioni dalla cassazione 2025
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6966 del 2025, chiarisce le condizioni in cui un dipendente può rifiutare la prestazione lavorativa senza rischiare il licenziamento.

L’articolo analizza l’ordinanza 6966/2025 della Corte di cassazione, che riconosce il diritto del lavoratore a rifiutare la prestazione in caso di inadempimenti gravi e proporzionati del datore, sottolineando l’importanza di buona fede, proporzionalità e tutela del lavoratore in condizioni di lavoro non idonee. - Unita.tv
Il confronto tra diritti e doveri in ambito lavorativo continua a essere al centro di molte controversie. La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 6966 del 2025, ha chiarito quando il rifiuto di un dipendente di svolgere la propria prestazione non solo è giustificato, ma non può essere sanzionato con il licenziamento. Il caso riguarda in particolare situazioni nei quali il datore di lavoro non rispetta obblighi fondamentali, e il diniego del lavoratore risulta proporzionato e in linea con la buona fede. Vediamo i punti principali e i risvolti pratici di questa sentenza.
Il caso della guardia giurata e la nullità del licenziamento
Nel caso analizzato dalla cassazione, un dipendente impiegato come guardia giurata si era rifiutato di usare l’auto messa a disposizione dalla società per svolgere il proprio turno. La vettura, così piccolo e senza sedile regolabile, non era adatta alla sua corporatura robusta. L’azienda ha reagito licenziando il lavoratore per insubordinazione e abbandono del posto di lavoro.
La corte di appello di Bologna ha invece accolto la richiesta del dipendente, dichiarando la nullità del licenziamento. Ha riconosciuto che il rifiuto non era arbitrario, ma motivato da condizioni di lavoro non idonee a garantire la sicurezza e il benessere sul luogo di lavoro. Il lavoratore aveva inoltre continuato a farsi trovare disponibile fino alla fine del suo turno, limitando il rifiuto al solo uso dell’autovettura.
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La sentenza ha messo anche in luce una gestione poco attenta da parte della società, che aveva ignorato precedenti richieste di modifica dei turni e aveva avviato contemporaneamente più procedimenti disciplinari contro il lavoratore. Questo ha contribuito a configurare il licenziamento come una ritorsione, più che un provvedimento legittimo, portando alla reintegrazione del dipendente e al pagamento di un’indennità.
Il principio della proporzionalità e buona fede nel rifiuto
La cassazione ha ribadito un punto cruciale: nei contratti di lavoro, quando il lavoratore contesta il mancato adempimento del datore, il giudice deve valutare i comportamenti di entrambe le parti, tenendo conto dei rapporti di causa ed effetto. In pratica, si osserva se il rifiuto del lavoratore è proporzionato a ciò che il datore non ha rispettato.
Il giudice deve considerare la funzione economico-sociale del contratto, badando alla correttezza e buona fede dei soggetti, come previsto dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile. L’eccezione di inadempimento può essere accettata solo se non è pretestuosa e non mira a sottrarsi indebitamente ai propri obblighi.
Nel caso concreto, la corte di appello aveva raccolto prove sulla buona fede del lavoratore, dimostrando che il rifiuto si basava su ordini di servizio non praticabili e su una condizione reale dell’ambiente di lavoro.
Precedenti sentenze a sostegno della tutela del lavoratore in condizioni particolari
La cassazione ha richiamato un altro caso, quello del dipendente con difficoltà motorie, che dopo un infortunio non si era presentato nella nuova sede di lavoro. Il medico competente aveva certificato idoneità con limitazioni, e con ciò la corte aveva riconosciuto che il rifiuto di prendere servizio in condizioni non idonee fosse giustificato.
Anche in questa circostanza, la cassazione ha confermato che il lavoratore non è obbligato a rivolgersi preventivamente a un giudice o medico prima di opporsi a condizioni lavorative non conformi. Si deve però tener presente l’entità dell’inadempimento da parte del datore di lavoro e se questo influisce sulle condizioni di vita essenziali del lavoratore.
Limiti del diritto a rifiutare la prestazione lavorativa
Non ogni inadempimento del datore può legittimare il rifiuto del lavoratore. La cassazione, con l’ordinanza n. 836 del 2018, ha chiarito che se un dipendente riceve mansioni inferiori rispetto alla qualifica senza una decisione giudiziaria che confermi la contestazione, non può rifiutarsi da solo di eseguirle.
In quel caso, il lavoratore aveva invocato l’inadempimento datoriale e si era assentato dal lavoro senza una base legale. La corte ha quindi rimesso al datore di lavoro il diritto di impartire direttive e al lavoratore il dovere di obbedire, salvo che le condizioni lavorative siano tali da ledere seriamente bisogni vitali e famigliari.
Consigli pratici per i lavoratori su quando opporsi alla prestazione
Il quadro normativo invita i lavoratori a valutare attentamente quando rifiutare la prestazione, in particolare cercando di quantificare la gravità dell’inadempimento da parte del datore. L’opposizione deve rispettare la buona fede e la proporzionalità, evitando comportamenti che possano apparire strumentali o eccessivi.
Il rischio di perdere il posto di lavoro resta concreto se si agisce contro tale principio. Per questo, è consigliabile raccogliere documentazione, comunicare con la parte datoriale, e se necessario rivolgersi a un avvocato o agli enti preposti prima di sospendere unilateralmente la prestazione lavorativa.
La giurisprudenza del 2025 ha confermato la necessità di bilanciare con attenzione questi aspetti, riconoscendo al lavoratore tutele precise ma anche doveri stringenti.