Negli ultimi mesi il dibattito su come finanziare la difesa europea si è fatto sempre più acceso. La presidente della commissione europea Ursula von der Leyen ha insistito sulla necessità per l’Europa di rafforzare le proprie capacità militari, anche a costo di aumentare il debito pubblico. Ma la strada si mostra in salita, tra ritrosie politiche, limiti giuridici e scetticismo delle opinioni pubbliche. Questo articolo racconta i nodi principali della partita, dal contesto giuridico alle spinte politiche, senza tralasciare le divergenze tra i Paesi e le implicazioni sull’industria bellica.
I vincoli giuridici sulle spese militari e il dibattito nel parlamento europeo
La richiesta di von der Leyen di consentire agli Stati membri di superare in via eccezionale i limiti di indebitamento per finanziare il riarmo ha sollevato diverse reazioni. La commissione affari giuridici dell’europarlamento si è espressa contro questa proposta, opponendosi a un utilizzo esteso dell’articolo 122 del TFUE, che consente deroghe in situazioni di emergenza economica. Finora questa norma è stata usata soltanto in casi estremi, come durante la pandemia da Covid.
Nel contesto attuale però, l’idea di considerare le spese militari come un’emergenza strutturale appare difficile da sostenere. Infatti, il processo per raggiungere l’obiettivo del 2% del PIL investito in difesa entro il 2030 richiede un periodo prolungato di finanziamenti continuativi, cosa che non si concilia con una deroga temporanea. A questo si aggiunge la frattura tra la commissione europea, che spinge per un’impostazione più flessibile, e il parlamento, più cauto e pronto a ricorrere alla corte di giustizia in caso di abusi.
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Questo scontro evidenzia come la dimensione giuridica rappresenti un ostacolo cruciale. I governi nazionali devono trovare formule legali per inserire queste spese nei bilanci senza violare i trattati europei. La preoccupazione principale riguarda il rispetto delle regole sul debito, ma c’è anche il tema politico: molti parlamenti nazionali e i cittadini non sono disposti ad accettare ulteriori carichi fiscali o debiti per finanziare armi e apparati militari.
Opinione pubblica e sondaggi: tra paura e riluttanza a investire nella difesa
Numerosi sondaggi europei mostrano un quadro complesso sull’atteggiamento dell’opinione pubblica verso il riarmo. Sebbene un’ampia fetta di cittadini riconosca la necessità di rafforzare la difesa, esiste una netta resistenza a dedicargli grandi quantità di risorse economiche. In molti continuano a vedere negli Stati Uniti il pilastro difensivo principale del continente, una posizione consolidata da decenni.
Al contempo, si nota come in alcuni Paesi stia crescenfo una cultura antimilitarista, con contestazioni sulle spese militari che richiamano una diffidenza verso i rischi concreti di un’escalation. In particolare, la crisi ucraina ha acceso i riflettori sulla possibilità di un conflitto diretto in Europa, ma non ha completamente spostato il sentimento pubblico verso una spesa massiccia.
Il ragionamento di chi si oppone non è solo di natura pacifista, ma anche legato a sospetti sulle motivazioni economiche dietro al riarmo. Alcuni cittadini considerano che la lobby degli armamenti spinga per aumentare le commesse e trarre profitto dalla produzione militare piuttosto che per reali esigenze di sicurezza. Basta guardare in Germania, dove l’industria degli armamenti ha avuto un ruolo molto visibile nel dibattito.
La complessità delle alleanze e degli interessi geopolitici sul riarmo europeo
Non è semplice nemmeno definire quali attori trarrebbero vantaggio da un esercito europeo comune. L’idea che l’esercito europeo non sia solo la somma di quello nazionale spinge verso una riflessione sulle sedi produttive, il controllo della catena militare e le strategie di comando. Domande come chi costruirà le armi o chi comanderà politicamente e militarmente la difesa europea restano aperte.
Le spinte per il riarmo si intrecciano con gli equilibri politici e geografici. Paesi più vicini al “fronte dell’Est” spingono per una difesa più robusta, mentre altre nazioni esitano. Questa divisione si riflette anche nei gruppi parlamentari e nelle coalizioni, rendendo il processo decisionale ancora più frammentato.
Se una possibile tregua nella guerra in Ucraina dovesse stabilizzarsi, la percezione del rischio sarebbe destinata a calare. In questo caso potrebbero cambiare sia la spinta politica sia la disponibilità ai grandi investimenti in armamenti. Al momento, invece, ogni passo in avanti rischia di essere rallentato da questo gioco di interessi incrociati.
Il caso italiano tra posizioni di governo e divisioni interne
In Italia la questione del riarmo pesa sulle scelte della maggioranza guidata da Giorgia Meloni. La premier ribadisce l’obiettivo di portare la spesa militare al 2% del PIL, ma sa che buona parte dell’opinione pubblica accetta meno volentieri di metter mano al portafoglio per questo scopo. In questo orizzonte si inserisce il tentativo del commissario europeo Raffaele Fitto, che ha proposto di consentire il trasferimento di fondi destinati alla coesione europea verso l’industria bellica.
Questa proposta ha ricevuto una risposta negativa dalla corte dei conti europea, evidenziando i limiti anche a livello istituzionale. Fitto si mantiene su posizioni allineate con von der Leyen, mentre in patria resta un clima di attesa e riserva. La scelta italiana sembra cercare un compromesso per evitare divisioni all’interno della coalizione, che sul tema della difesa mostra già crepe evidenti.
Il bilanciamento tra consenso politico interno e esigenze europee rende la posizione italiana un termometro importante per capire l’evoluzione del riarmo sul continente. Il nodo resta aperto e potrebbe mutare a seconda del contesto internazionale e delle scelte strategiche che prenderanno i governi nei prossimi mesi.