Home la storia di pino astuto, trent’anni chiuso in un manicomio senza una vera ragione

la storia di pino astuto, trent’anni chiuso in un manicomio senza una vera ragione

La storia di Pino Astuto, internato per trentadue anni senza diagnosi, mette in luce le ingiustizie del sistema psichiatrico italiano e la lotta per il riconoscimento dei diritti delle persone fragili.

la_storia_di_pino_astuto%2C_tren

La storia di Pino Astuto denuncia l’ingiustizia subita da chi è stato internato senza diagnosi né tutele, evidenziando le falle del sistema psichiatrico italiano e la lotta per il riconoscimento dei diritti negati. - Unita.tv

La vicenda di Pino Astuto riporta alla luce un capitolo oscuro della storia italiana, quello delle persone internate nei manicomi senza diagnosi certe o tutele reali. Nato a Girifalco, in Calabria, Pino passò trentadue anni rilegato in strutture psichiatriche dopo un episodio accaduto quando aveva solo nove anni. Il racconto, trasmesso da Rai 3 nel programma “Che ci faccio qui” di Domenico Iannacone, mostra un sistema che ha fallito nel garantire diritti e dignità, trasformando l’assistenza in isolamento e abuso.

L’inizio di una detenzione senza senso

Tutto cominciò nel 1972. Pino aveva appena nove anni quando fu internato per la prima volta nell’ex manicomio di San Giovanni. La ragione ufficiale? Un furto di pane. Un gesto dettato dalla fame, dalla paura verso la madre e dalla disperazione di un bambino. Quel pezzo di pane però spinse gli adulti a rinchiuderlo come se fosse un pericolo sociale, senza mai preoccuparsi di capire la sua reale situazione. Nessuna diagnosi neuropsichiatrica venne effettuata, né ci fu una valutazione che potesse indirizzare interventi educativi o di supporto.

Un internamento senza basi mediche

Il criterio che motivò il suo internamento fu una vaga “carenza affettiva”. Il ragazzo si ritrovò in mezzo a malati gravi con cui condivideva sofferenze, ma senza alcuna tutela o progetto terapeutico. Subì legamenti al letto, punizioni fisiche e l’isolamento. I tentativi di fuggire da quel luogo, che lui non comprendeva, non portarono a nessun cambiamento. La sua condanna divenne di fatto a vita.

Manicomio e legge basaglia, un destino che non cambia

Nel 1978, la legge Basaglia chiuse i manicomi, una svolta importante nella storia della psichiatria italiana. Per Pino però, quel cambiamento servì a poco. Fu trasferito in una struttura residenziale psichiatrica, una sorta di continuo ergastolo mascherato. Nessuna nuova valutazione clinica fu mai fatta e nemmeno un’idea di reinserimento o trattamento. Rimase lì fino al 1999, vivendo in una gabbia invisibile senza una diagnosi definitiva.

Quando riuscì ad uscire da quella struttura, si trovò abbandonato a se stesso, senza riferimenti, senza diritti, senza una storia riconosciuta. Nessuno si era mai preso cura di lui, nessuno aveva restituito un’identità o una possibilità di futuro reale. La sua presenza fuori da quelle mura era un corpo estraneo.

La battaglia legale per un risarcimento e la ricerca di giustizia

Nel 2012, grazie all’intervento dell’avvocata Serenella Galeno, Pino intraprese una lunga e difficile battaglia legale contro l’ASP di Catanzaro. Dopo dieci anni la giustizia lo riconobbe vittima di una “perdita di chance educativa” durante l’infanzia e gli concesse un risarcimento di 50.000 euro. Nulla però venne riconosciuto per gli anni successivi, quelli da adulto, in cui fu praticamente detenuto senza una motivazione legittima.

Questa vicenda solleva molte domande sul trattamento delle persone considerate “diverse” o “fragili”. La giurisprudenza ha parzialmente raddrizzato quella tortura istituzionale, ma resta la ferita aperta di un uomo che ha perso decenni della sua vita senza giudizio, senza assistenza vera.

Cosa resta di quegli anni

La battaglia legale è stata solo un passo per cercare di ottenere un minimum di riconoscimento, mentre la sofferenza di queste persone resta un tema aperto nel sistema sanitario e sociale.

la nuova vita di pino astuto e il segno del passato

Oggi, Pino vive a Girifalco in una casa modesta con la moglie, Angela. Fa della sua quotidianità un tentativo di riscatto. Nelle sue mani nascono mobili assemblati con materiali di recupero, opere nate dal riuso di ciò che la società considera scarto. Colleziona penne, un simbolo del percorso scolastico mai completato e delle parole mai scritte.

La sua pensione minima non gli consente un futuro tranquillo, mentre ogni tentativo di trovare lavoro finisce contro la barriera del pregiudizio. Ancora oggi, molti nel suo paese lo vedono con sospetto, come “il matto”, un’etichetta che accompagna la sua vita dopo un lungo passato di sofferenza.

Un racconto che denuncia un sistema e solleva domande

La trasmissione su Rai 3 ha acceso i riflettori su un uomo e su un sistema che per troppi anni ha fallito. Pino Astuto incarna la sofferenza di chi è stato privato di libertà, dignità e possibilità, senza colpa, senza processo, senza appello. Il suo volto e la sua esperienza restano la denuncia di una falla profonda nel modo in cui la società ha gestito chi soffriva di disagio mentale.

Il suo silenzio, interrotto solo per raccontare la sua storia, parla più di molte parole. Ricorda quanto può essere crudele la burocrazia se disgiunta dalla umanità. La memoria di queste vicende serve a difendere chi oggi rischia di vedere calpestati i propri diritti da un sistema che non sempre ascolta o protegge. Pino Astuto è un simbolo che richiama ad una riflessione collettiva.