Israele pronto a un attacco massiccio su Gaza mentre Trump prepara il viaggio in medio oriente

Il governo di Israele, guidato da Netanyahu, avvia un piano per l’occupazione di Gaza e lo spostamento forzato dei palestinesi, mentre Trump gioca un ruolo cruciale nel conflitto.
L’articolo analizza il piano israeliano di un’offensiva su larga scala a Gaza, con occupazione e spostamento forzato della popolazione palestinese, evidenziando il ruolo cruciale di Trump e le tensioni politiche interne e internazionali che complicano una possibile soluzione del conflitto. - Unita.tv

L’escalation del conflitto a Gaza sembra irreversibile. Dopo quasi due anni di distruzioni e scontri, il governo di Israele ha deciso di varare un piano per un’offensiva su larga scala nella striscia di Gaza. Questa mossa, annunciata da Netanyahu, prevede l’occupazione di parte del territorio e lo spostamento forzato dei palestinesi verso sud. L’iniziativa accende nuove tensioni, in attesa del viaggio di Trump in medio oriente, che potrebbe indirizzare le prossime mosse sul terreno.

Il piano di israel per gaza: occupazione e spostamento della popolazione

Il piano appena varato dal governo israeliano si traduce in un attacco massiccio, con l’obiettivo di controllare una larga parte della striscia di Gaza. L’intenzione è chiara: ridurre la presenza palestinese spingendo gli abitanti verso il sud del territorio. Sono mesi che la guerra infligge danni gravissimi alla regione, alimentando una crisi umanitaria senza precedenti. Lo scenario prevede una sorta di deportazione, una decisione che ha suscitato reazioni limitate sulla scena internazionale.

Per ora, questo piano resta in sospeso, in attesa di sviluppi collegati al viaggio del presidente americano. L’applicazione pratica dovrebbe avvenire solo dopo il termine della missione diplomatica di Trump. Nel frattempo, questa strategia fa pressione su Hamas, con l’intento di negare qualsiasi appoggio o giustificazione politica, spingendo il movimento palestinese a liberare gli ostaggi. Si tratta di un gioco al massacro che lascia pochi spazi alla mediazione.

Le uniche voci contrarie, almeno a livello dichiarativo, arrivano dalla Francia e dalla Cina. Entrambi paesi che esprimono riserve sul piano israeliano, mettendo il tema palestinese al centro delle loro obiezioni. Ma queste posizioni diplomatiche, per ora, non scalfiscono le intenzioni di Tel Aviv, che sembrano decise e pronte all’azione.

Trump e il ruolo degli stati arabi nel possibile stop della guerra

Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore, sottolinea come solo Trump possa davvero fermare il conflitto. Il viaggio del presidente americano in medio oriente assume quindi un peso cruciale per l’evolversi delle cose. Alla posizione di Trump si lega anche quella dell’Arabia Saudita, disposta a stringere accordi economici con gli Stati Uniti, a condizione che si inizi a trattare sullo stato palestinese. Una condizione che Netanyahu rifiuta categoricamente, visto il bisogno che ha della guerra per mantenere in vita il suo governo.

L’Arabia Saudita si trova infatti in una posizione delicata: da un lato punta allo sviluppo economico e tecnologico, con progetti ambiziosi come la costruzione di Neom e la produzione nucleare civile. Dall’altro, la questione palestinese rimane un nodo irrisolto per la popolazione saudita, profondamente radicata in una tradizione religiosa e politica che guarda a Gaza come simbolo della causa araba.

Trump avrebbe in mente di trasformare Gaza in una “riviera del medio oriente”, ma questo progetto appare sempre più lontano, viste le condizioni presenti. I sauditi sarebbero disposti a investire nella ricostruzione, ma solo a patto di escludere Hamas. L’organizzazione palestinese, considerata ormai un ostacolo, perde credito anche negli stessi territori che controlla. Senza il suo smantellamento, ogni piano di ricostruzione rimane impraticabile.

La crisi dei negoziati e la dura posizione di netanyahu

Le possibilità di un dialogo tra israeliani e palestinesi appaiono minime. Hamas ha dichiarato che “non è ragionevole proseguire i colloqui se la popolazione di Gaza viene lasciata morire di fame e se si progetta una futura occupazione”. La proposta di Hamas, arrivata settimane fa, prevedeva la liberazione degli ostaggi in cambio di una tregua quinquennale, ma Israele non sembra disposta a concedere nulla in cambio di una riduzione delle tensioni.

Netanyahu si trova quindi a sostenere una linea ferma, determinata dalla necessità politica di mantenere il proprio governo di estrema destra. Il conflitto, in effetti, è un collante per la sua coalizione, che punta a riannetterere non solo Gaza, ma anche la Cisgiordania. Da parte di Hamas, invece, c’è il rifiuto di lasciare il potere e gli ostaggi nelle mani israeliane. Questo stallo produce una situazione di impasse che paralizza ogni percorso diplomatico.

Inoltre, nessuno sembra disposto a finanziare la ricostruzione finché Hamas controllerà il territorio. Anche questo fattore contribuisce a mantenere rigida la posizione sul conflitto. Israele, intanto, sfrutta questa fase per cominciare ad aumentare la sua presenza nella striscia, con l’obiettivo dichiarato di rispushare i palestinesi e rioccupare territori ormai da tempo sotto controllo di Hamas.

Le tensioni internazionali e il peso dei paesi del golfo

L’esito della missione di Trump in medio oriente incide direttamente sul futuro del piano israeliano. I paesi del golfo avranno un ruolo nella decisione finale, e la loro posizione si basa su interessi sia politici sia economici. Trump spinge per un accordo che comprenda ampi investimenti e la stabilità necessaria per i suoi affari legati all’energia e alla tecnologia.

Gli stati arabi, pur non mostrando un’attenzione diretta al destino dei palestinesi, utilizzano la questione come leva interna per giustificare alcune riforme sociali e politiche difficili da far accettare alle opinioni pubbliche domestiche. Il wahhabismo e le tradizioni vengono messi a confronto con la realtà di un medioriente in cambiamento, con una questione palestinese ancora aperta che non può essere ignorata.

Se Israele continuerà la sua strategia militare, questi paesi potrebbero rivedere accordi e collaborazioni economiche con gli Stati Uniti e con Tel Aviv. Per questo è altissima la posta in gioco nel breve periodo, e Trump appare come l’attore principale che può decidere la direzione del conflitto, anche sui tempi e sui modi di un eventuale cessate il fuoco.

Le prospettive di un’occupazione duratura e le conseguenze sui civili di gaza

Il piano di Netanyahu sembra preludere a una occupazione progressiva della striscia di Gaza. Lo svuotamento di una parte del territorio palestinese, tramite spostamenti forzati della popolazione, rappresenta una svolta pesante. Anche se restano in vigore alcuni aiuti umanitari essenziali, la situazione resta drammatica per chi vive in quella zona. Fame, sete e distruzioni continuano a mietere vittime ogni giorno.

L’Europa e l’occidente in generale si trovano a osservare questa crisi senza poter imporre soluzioni concrete. La copertura americana a Israele è massiccia, e garantisce un margine di libertà nelle azioni militari. L’aggressione del 7 ottobre continua a rappresentare un momento di rottura, ma non giustifica operazioni che sembrano orientate ad un’espulsione di massa.

Le tensioni umanitarie si sommano alla mancanza di soccorsi effettivi e al blocco degli aiuti. La distruzione degli edifici e delle infrastrutture lascia la popolazione senza protezione né servizi. L’assenza di una soluzione politica, inoltre, prolunga lo stato di emergenza, trasformando Gaza in una trappola per chi vi abita.

I giochi politici interni israeliani e la posta in gioco per netanyahu

Il destino del piano dipende anche dalla situazione politica interna israeliana. Netanyahu rischia di perdere la maggioranza parlamentare se dovesse chiudere il conflitto di Gaza senza un esito favorevole ai suoi sostenitori. Il suo governo si regge infatti in gran parte proprio sull’escalation e sull’ostilità verso i palestinesi.

Per questo il primo ministro attende l’esito delle consultazioni con gli Stati Uniti, consapevole però dei propri limiti. La guerra infatti rimane il collante per la sua coalizione. Da tempo l’assenza di una proposta politica per il dopo la guerra si traduce in una strategia di mantenimento del potere che si basa più sul conflitto che sulla pace.

Anche l’ipotesi di un’alternativa palestinese che potrebbe sostituire Hamas non trova spazio nel suo orizzonte. Collaborare con l’Autorità nazionale palestinese non è contemplato, perché la guerra serve a giustificare la linea dura. Nel frattempo, la comunità internazionale resta divisa e l’instabilità sembra destinata a durare.