Il giudice vitelli sul delitto di garlasco: riflessioni a quindici anni dall’assoluzione di alberto stasi
Il giudice Stefano Vitelli torna a riflettere sul caso di Garlasco, rivelando dettagli sull’assoluzione di Alberto Stasi e criticando le indagini lacunose e l’influenza dei media sull’opinione pubblica.

Il giudice Stefano Vitelli, che nel 2010 assolse Alberto Stasi nel caso Garlasco, torna a raccontare i dettagli del processo, evidenziando il ruolo cruciale della perizia informatica e sottolineando l'importanza del ragionevole dubbio in un’indagine giudiziaria ancora controversa. - Unita.tv
Il delitto di Garlasco continua a tenere alta l’attenzione più di quindici anni dopo quei fatti che sconvolsero la città. Alberto Stasi, assolto in primo grado dal giudice Stefano Vitelli, torna protagonista non per un nuovo processo ma per le parole di chi ha firmato quell’assoluzione. I dubbi, le perizie, le testimonianze e le critiche a un’indagine giudiziaria che non convinsero del tutto hanno segnato il caso. Il magistrato, a quindici anni di distanza, ha scelto di tornare a raccontare quel processo, mettendo al centro i dettagli che portarono alla sua decisione e raccontando alcune curiosità di un’indagine mai del tutto chiara.
Il ruolo del giudice vitelli nel processo di primo grado e le perizie sull’alibi informatico
Nel 2010 il giudice Stefano Vitelli concluse il processo di primo grado con un’assoluzione per Alberto Stasi, decisione che colpì non solo l’opinione pubblica ma anche gli addetti ai lavori. Il fulcro della difesa di Stasi era rappresentato da un alibi informatico, ovvero la tesi che il giovane, in quel momento, stava lavorando al computer sulla propria tesi di laurea. Vitelli ha ricordato come l’acquisizione dei dati digitali fosse stata compromessa da interventi inappropriati da parte dei carabinieri, che avevano operato senza rispettare le corrette procedure tecniche. Questo causò accessi abusivi che rischiavano di invalidare completamente la prova principale della difesa.
Nonostante ciò, il giudice decise di approfondire la questione affidando una perizia informatica che potesse tentare di recuperare i dati compromessi. Gli esperti coinvolti finalmente confermarono che, proprio come Stasi aveva detto, egli stava lavorando sulla tesi nei momenti in discussione. La quantità di lavoro effettuata risultò significativa e dunque l’alibi risultò confermato. Questo passaggio è stato fondamentale per l’assoluzione, mostrando un ruolo centrale della perizia tecnica in un processo dominato da elementi di natura scientifica.
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Testimonianza della vicina di casa della vittima e l’impatto nel processo
La testimonianza della signora Bermani, vicina di casa della famiglia Poggi – vittima del delitto – assume un ruolo rilevante nel racconto giudiziario. La donna aveva notato una bicicletta diversa da quella di Stasi appoggiata al muro della villetta della famiglia, un dettaglio significativo in un processo dove gli spostamenti e le presenze erano attentamente studiati. Nel corso del processo il giudice Vitelli sottolineò come la testimonianza della vicina non venne mai contestata, nemmeno quando le vennero rivolte domande provocatorie.
Quella testimonianza fece emergere un senso di incompiutezza nel processo stesso, quasi come se testimoniasse un pezzo di realtà non compatibile con la versione consolidata fino a quel momento. Fu un momento che segnò molto lo stesso magistrato, che riconobbe come quell’apparente silenzio in aula fosse più indicativo che altro. La vicina, con la sua osservazione concreta, aggiunse un tassello poco considerato ma importante all’interno di un quadro complesso.
L’aneddoto sulla perizia informatica e le ripercussioni delle conclusioni tecniche
Il giudice Vitelli racconta di aver vissuto quel processo come un’esperienza fuori dal comune, già dall’inizio sospettava che qualcosa sfuggisse alla comprensione tradizionale. Un episodio rimasto impresso riguardò un momento subito dopo avere affidato l’incarico della perizia informatica: egli si aspettava che si potesse smentire l’alibi di Stasi, pensando che l’ingegnere informatico avrebbe rivelato l’assenza di attività sul computer in quei momenti.
Invece accadde il contrario: l’ingegnere telefonò al giudice comunicando di aver recuperato i dati “pulendo” tutto e constatando che Stasi aveva effettivamente lavorato alla tesi. Quella telefonata spezzò un’ipotesi comune e rese ancora più evidente l’ombra di mistero che aleggiava in quel caso. La precisione delle indagini tecniche si rivelò cruciale, almeno nella ricostruzione dell’alibi informatico, pese che lasciò aperti molti altri interrogativi nella vicenda complessiva.
Le critiche al dibattito pubblico e la valutazione del magistrato sul valore del ragionevole dubbio
Il giudice Vitelli ha parlato anche dell’attenzione mediatica e sociale che ha accompagnato la vicenda fin dall’inizio. A suo giudizio, la discussione intorno al delitto di Garlasco mostra come oggi il pubblico si informi da fonti spesso non affidabili, in particolare tramite i social network. Questa “giungla di opinioni” contiene giudizi sommari e manca spesso di rigore professionale.
Secondo Vitelli, il dibattito ruota troppo intorno a contrapposizioni politiche e culturali che influenzano le opinioni senza un vero approfondimento. Egli ribadisce che i giudici devono basarsi sul ragionevole dubbio, principio laico che riguarda la verifica di prove e indizi senza cedere a compromessi o forzature ideologiche. Nella sua sentenza, il giudice si concentrò esclusivamente sulla possibilità che gli indizi potessero dimostrare la colpevolezza di Stasi oltre ogni dubbio e concluse che quei presupposti non c’erano.
Vitelli definì le indagini della prima fase lacunose e insufficienti, un dato ormai noto e condiviso tra addetti ai lavori. Sebbene non si sia espresso sulla nuova indagine aperta successivamente, ha ricordato l’importanza del ragionevole dubbio nel sistema giudiziario, citando una massima dei suoi maestri: “è meglio che un colpevole rimanga nella libertà piuttosto che un innocente in prigione.” Questa riflessione resta un punto di riferimento nel caso più discusso di quegli anni.