Francesco bellomo pronto al ritorno in magistratura dopo l’intervista con fabrizio corona
Francesco Bellomo, ex magistrato escluso nel 2018 per accuse di maltrattamenti, racconta la sua vicenda in un’intervista a Fabrizio Corona, difendendo le sue scelte e contestando il procedimento disciplinare.

Francesco Bellomo, ex magistrato sospeso per presunti abusi su studentesse, difende la propria innocenza in un'intervista, denunciando irregolarità nel procedimento disciplinare e annunciando la sua battaglia legale per tornare in magistratura. - Unita.tv
L’ex magistrato Francesco Bellomo ha parlato a fondo della sua vicenda giudiziaria e disciplinare durante la trasmissione “Corona on air” condotta da Fabrizio Corona su YouTube. Bellomo, escluso dalla magistratura dal 2018 per accuse legate a presunti atti persecutori e maltrattamenti nei confronti di studentesse della scuola di formazione giuridica Diritto e Scienza, rivisita il percorso che lo ha portato fino a questa sospensione. L’intervista offre un quadro dettagliato delle accuse mosse contro di lui, delle sue dichiarazioni e della battaglia legale che vuole ancora condurre per recuperare l’attività di magistrato.
Il contesto della sospensione e le accuse contro bellomo
Francesco Bellomo, noto ex magistrato e direttore della scuola di formazione Diritto e Scienza, è stato allontanato dalle sue funzioni nel 2018 a seguito di accuse di comportamenti ritenuti lesivi della dignità delle studentesse che partecipavano ai suoi corsi. In particolare, è stato indagato e sottoposto a procedimenti disciplinari per presunti atti persecutori e maltrattamenti. La vicenda ha avuto un forte impatto sul suo ruolo e sulla sua immagine pubblica.
Durante l’intervista, Bellomo nega categoricamente la presenza di atti persecutori o maltrattamenti, affermando che “non esisteva un obbligo o un potere coercitivo nei rapporti con le studentesse.” Ha ammesso però di aver avuto delle relazioni con alcune di loro, un elemento che ha complicato ulteriormente la sua posizione. La prima denuncia ufficiale è partita dal padre di una giovane studentessa, che presentò un esposto disciplinare. Dopo la sanzione iniziale, Bellomo racconta che le accuse si spostarono sul versante penale, portando poi alla sospensione dall’insegnamento, sanzione che ritiene ingiustificata per assenza di motivi concreti.
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L’ex magistrato insiste sul fatto che “tutto è nato da questioni di interpretazione” e rimanda ogni responsabilità sulle accuse mosse, sottolineando che, dal suo punto di vista, il procedimento è stato gestito in modo sbagliato fin dal principio.
Dai regolamenti interni al “fidanzato a punteggio”: le clausole contestate
Uno dei punti più controversi della vicenda riguarda le regole interne, definite da Bellomo, applicate nella sua scuola. Una delle clausole al centro del dibattito è quella cosiddetta del “fidanzato a punteggio”, presente nel contratto dei borsisti. Secondo quanto racconta, gli studenti dovevano valutare il proprio partner sentimentale attribuendo un punteggio. Se quel punteggio risultava sotto una certa soglia, la relazione veniva considerata motivo per rivedere il rapporto tra borsista e scuola.
Bellomo spiega che “questa disposizione non era un semplice gioco, ma un elemento contrattuale con una sua logica: evitare che studenti legati a persone con scarso impegno o motivazione compromettessero la formazione.” Sostiene inoltre che la clausola non la gestiva direttamente lui, contestando la ricostruzione di chi ha detto il contrario.
Altra questione spinosa è stata il “dress code” imposto agli studenti, un regolamento sull’abbigliamento da rispettare durante le attività, che Bellomo difende come dipendente dai contesti in cui si svolgevano i corsi. Le sue lezioni, tra l’altro, comprendevano supporto individuale riservato sia a ragazze che ragazzi, sempre ospitati nell’hotel scelto come sede della scuola.
La difesa insiste che queste disposizioni “non rappresentano violazioni civili o penali,” e che il procedimento disciplinare si è basato su interpretazioni errate di norme applicate a un contratto privato.
Il ruolo di giuseppe conte e il procedimento disciplinare
Un passaggio importante dell’intervista riguarda il coinvolgimento di Giuseppe Conte, allora presidente della commissione disciplinare, che ha seguito personalmente l’interrogatorio di Bellomo il primo agosto del 2017. L’incontro si è svolto negli uffici del Consiglio di Presidenza della Magistratura, di cui Conte era vicepresidente.
Bellomo ripercorre il dialogo come esempio di un procedimento avviato senza nemmeno disporre del contratto oggetto di contestazione. Durante l’interrogatorio, gli venne comunicato che il contratto includeva clausole “lesive della dignità delle donne,” ma senza fornire dettagli sulle parti incriminate né mostrarne il testo.
Secondo Bellomo, questo dimostra un difetto procedurale piuttosto grave: “un’accusa basata sul nulla materiale.” Pur in mancanza di prove chiare, il procedimento andò avanti, e per lui dimostra una gestione poco trasparente della commissione disciplinare.
La battaglia di bellomo per tornare in magistratura
Francesco Bellomo continua a rifiutare l’idea di aver violato norme e procedure. Ritiene che il problema principale risieda nell’interpretazione della norma che può sanzionare un magistrato solo se lederebbe il prestigio e l’immagine della magistratura amministrativa. Nel suo caso, le clausole contestate del contratto privato non configurerebbero alcun illecito e non dovrebbero essere oggetto di interventi disciplinari.
La sospensione dalle funzioni di magistrato resta in vigore, pur permettendogli di continuare le attività didattiche. Bellomo non si espone in attacchi alla magistratura in generale, ma punta il dito contro alcuni colleghi che – a suo dire – hanno influito sulla sua vicenda.
La strada legale non è definitivamente chiusa per Bellomo. Controlla la speranza che le Sezioni Unite decidano sulla sua vicenda in linea con la legge, anche se in caso contrario non esclude il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sua volontà di tornare a svolgere la professione è sostenuta dalla convinzione di essere stato “vittima di un procedimento disciplinare ingiusto e privo di fondamento.”